Gv 21,17

« Gli disse per la terza volta: "Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?".
Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: Mi vuoi bene?, e gli disse: "Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene". 

Gli rispose Gesù: "Pasci le mie pecore.»

Di fronte alla solita domanda, ripetuta da Gesù per la terza volta, il discepolo rimane addolorato perché, evidentemente, vi coglie un riferimento al suo triplice rinnegamento.
La sua risposta lascia così trasparire il cambiamento interiore che è avvenuto in lui rispetto al momento in cui aveva presuntuosamente affermato di voler seguire il Maestro, dicendoGli “Darò la mia vita per te!” (Gv 13,37)… nell'occasione in cui era stato subito smentito da Gesù con la predizione di ciò che effettivamente sarebbe successo di lì a poco (Cfr. Gv 13,38; Gv 18,17.25.27).
“Scottato” dal precedente fallimento, qui Simon Pietro non osa dire apertamente che ama Gesù ma, umilmente, si rimette alla prescienza che il Maestro gli aveva dimostrato predicendogli il triplice rinnegamento, e Gli dice: “Signore, tu conosci tutto; tu lo sai che ti voglio bene”.
E Gesù, che conosce ciò che c’è nel suo cuore, gli risponde: “Pasci le mie pecore”.

Segue: Gv 21,18-19

“Pasci le mie pecore”

Qual’è il significato di questa frase di Gesù?
Il ramo del Cristianesimo facente capo al Vescovo di Roma ha qui voluto intendere l’affidamento a Pietro di un incarico che gli conferirebbe, oltre all’autorità di governare il gregge costituito dall’insieme dei fedeli, anche il primato rispetto agli altri discepoli a lui subordinati… individuando così in questo passo un “mattone” scritturistico che fungerebbe da pezza giustificativa alla successiva concezione cattolico-romana della successione apostolica.
In realtà questa interpretazione del testo è però arbitraria, come per esempio mette in luce proprio un esegeta cattolico, il gesuita X.L.Dufour, il quale commenta Gv 21,17 scrivendo tra l’altro:
“A partire da questo testo, unito a Mt 16,19, il Vaticano I (1870) ha tratto conclusioni sull’autorità di Pietro sugli altri Apostoli e sulla successione di questo primato nel corso del tempo. 
Dal nostro punto di vista, che è puramente esegetico, il testo non basta da solo a fondare l’affermazione conciliare: le “pecore” non sono i compagni di Pietro, ma i credenti futuri, che saranno attirati a Gesù dall’azione missionaria dei discepoli.
In compenso, il fatto che la metafora del “pastore” nel Nuovo Testamento sia applicata ai responsabili delle comunità cristiane non autorizza, come vorrebbero alcuni, a vedere in Pietro semplicemente il loro rappresentante, e nella parola “pasci le mie pecore!” una esortazione di portata generale. In questo dialogo, Gesù si rivolge al discepolo in quanto soggetto particolare, con una propria storia”. (Xavier Léon Dufour, "Lettura dell'Evangelo secondo Giovanni" , Ed. San Paolo, 2007, p.1227)
Detto in altri termini, le parole di Gesù... “Pasci le mie pecore”... vanno riferite non tanto ad un primato di Pietro sull’intera cristianità, quanto invece alla sua storia personale, che in questo brano viene riabilitata… con il perdono accordatogli dal Risorto mediante il triplice incarico di pascere il gregge… un incarico “riparatore” del suo precedente e triplice rinnegamento.
In questa prospettiva, il “ministero pastorale” che Gesù conferisce a Pietro affinché, nel suo nome, regga il gregge dei fedeli cristiani… si inserisce nell’ambito di altri analoghi ministeri storicamente assegnati ai “pastori” di altre comunità cristiane, ai quali si riferiscono svariati passi neotestamentari (Cfr. At. 20,28; Ef. 4,11; 1 Pt 5,2-4).

Segue: Gv 21,18-19