Gv 9,2

« e i suoi discepoli lo interrogarono: "Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?".»

L'evangelista torna qui a parlarci dei discepoli di Gesù - rimasti “assenti” dal 7° e dall'8° capitolo - e scrive che posero al loro Rabbì questa domanda: “chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”.
Nella cultura del tempo continuava infatti ad essere presente l'antico principio giudaico noto come “legge della retribuzione”, secondo il quale le azioni dei "giusti" erano ricompensate con le benedizioni ed i “favori”, anche materiali, che Dio concedeva loro già durante l'esistenza terrena... mentre le azioni degli "empi" erano “remunerate” con la sventura e la sofferenza.
E' questa la prospettiva richiamata dalla domanda dei discepoli, nella quale è implicita la convinzione che la sofferenza di quel cieco fosse dovuta ad una precedente colpa... sua o dei suoi genitori... come potremo evincere anche da una successiva risposta dei farisei (Cfr. Gv 9,34).

Segue: Gv 9,3

UNA “BELLA” DOMANDA...

La questione che i discepoli pongono qui a Gesù, merita di essere analizzata nel dettaglio.
Per iniziare a farlo, bisogna prendere in considerazione l'antica concezione giudaica dello sheòl, ovvero l'oltretomba inteso come un luogo sotterraneo in cui si credeva finissero, indifferentemente, sia le “ombre” dei defunti che in vita si erano comportati in modo giusto... sia quelle di coloro che erano stati ingiusti.
Di fronte a questa sorte comune che attendeva sia i buoni che i cattivi… il principio della giustizia divina veniva salvaguardato mediante la fede nella cosiddetta “legge della retribuzione”, secondo la quale Dio “retribuiva” le persone già nel corso della loro vita terrena... “premiando” con i suoi favori chi faceva il bene e, viceversa, “punendo” con la sventura e la sofferenza chi faceva il male.
Ecco allora che... soltanto per fare un esempio... nel contesto religioso giudaico era d’uso dire: "Chi vede un mutilato, un cieco, un lebbroso, uno zoppo, dica "Benedetto il giudice giusto" (Berakot 58b)... … a significare che queste menomazioni fisiche andavano considerate come una “retribuzione” disposta da Dio, a fronte di precedenti colpe morali di coloro che le subivano.

Un problema che si poneva a coloro che ragionavano secondo questa tradizionale “legge della retribuzione”, era quello di spiegare il perché della sofferenza dei bambini... e l'abituale risposta data dai sapienti di Israele era che, quando ciò succedeva, significava che tali bambini avevano “ereditato” le colpe dei padri, come insegnano sia la Bibbia che il Talmud presentando un "Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione" (Es 20,5; Nm 14,18; Dt 5,9; Cfr.Tb 3,3s).
A questo principio si riferiscono infatti i discepoli di Gesù, che si rivolgono a Lui ipotizzando che l’infermità del cieco nato dipenda da una colpa dei suoi genitori.

Però, anziché limitarsi a questo aspetto, la loro domanda paventa anche un'ulteriore possibilità, e cioè che... in alternativa ai genitori... possa essere stato proprio lui, l'uomo cieco dalla nascita, a commettere peccato prima di nascere.
Questo “scenario” assume qui una particolare importanza, per il fatto che non può essere ricondotto alla sola “legge della retribuzione”.
Infatti, pur se nel Rabbinismo esisteva l'idea che il feto, finché era nel grembo materno, potesse commettere peccato, nel caso specifico dell'uomo nato-cieco questa prospettiva si rivela teologicamente insoddisfacente:
Infatti, quale peccato avrebbe mai potuto commettere quell'uomo quando ancora era un feto, per “meritare” addirittura una irrimediabile cecità sin dalla nascita… ovvero una condizione immutabile di “maledetto da Dio”, visto che nel Giudaismo si pensava che i ciechi fossero impossibilitati a salvarsi anche “solo” perché non potevano studiare la Torah... e non potevano entrare nel Tempio?

Ecco allora che l'unico “orizzonte” realmente sostenibile “suggerito” dalla domanda che i discepoli fanno a Gesù, nel momento in cui Gli chiedono se possa essere stato lui (il cieco-nato) a peccare, è quella di orientarsi verso una prospettiva ancora diversa... ovvero che quel cieco si trovi in quella condizione a causa di un peccato da lui commesso in una sua precedente esistenza.
E se Gesù avesse considerato assurda questa idea di una preesistenza dell'anima-spirito del cieco-nato, evidentemente non avrebbe potuto fare a meno di smentirla, togliendola dalla testa dei suoi discepoli.
Invece, il Suo silenzio in proposito... fa sì che in questo versetto possa essere individuata una Sua implicita approvazione di quel principio di preesistenza dell'anima che è il fondamento della reincarnazione.
E’ per questo motivo che, solo per fare un esempio, anche un “antireincarnazionista” come il sacerdote cattolico Pietro Cantoni, in un suo libro dal titolo “Cristianesimo e reincarnazione” si trova a dover ammettere: “L'unico punto in cui sembra attestata, in modo inequivocabile, una implicita credenza nella reincarnazione è l'episodio della guarigione del cieco nato in Gv 9,1-12” (Pietro Cantoni, “Cristianesimo e reincarnazione”, ElleDiCi 1997, p.25).

Al di là del fatto che non è affatto vero che si tratti di un “unico punto” (come ho messo in evidenza nel mio post “Nascere di nuovo”, nel blog “Diario di un monaco”), questa citazione è indicativa perché, al fine di sostenere la sua tesi antireincarnazionista, Don Cantoni “risolve” alla “bellemeglio” la questione scrivendo “Possiamo e dobbiamo invece affermare, con Schnackenburg, che 'una dottrina della metempsicosi' (…) non ha alcun appoggio in Io. 9,2” (Pietro Cantoni, “Cristianesimo e reincarnazione”, ElleDiCi 1997, p.25).

Assecondando la prospettiva di Don Cantoni... si può andare a leggere cosa scrive Schnackenburg... “L'idea di una preesistenza delle anime è pervenuta al giudaismo dall'ellenismo, ma certamente non è implicita nella domanda dei discepoli, e tanto meno l'idea della metempsicosi (peccare in un'esistenza precedente)” (Rudolf Schnackenburg, “Il Vangelo di Giovanni. Esegesi ed excursus integrativi", Ed. Paideia 1987, Vol.II, pag.407)... e si può dunque constatare che ci si trova di fronte non ad una argomentazione teologica, bensì ad una mera opinione di Schnackenburg che dicendo “certamente non è implicita”, esprime una considerazione personale opinabilissima per svariati motivi.
Per esempio, la circostanza che l’idea di “preesistenza dell’anima” provenga dall’ellenismo, non è di certo un motivo “serio” per scartarla, anche “solo” considerando… tanto per fare un esempio… che dall’ellenismo proviene pure il concetto di “Logos” il quale, com’è noto, è alla base dell'intera teologia giovannea... e costituisce una delle fondamentali concezioni teologiche sulle quali si è poi sviluppata la “cristologia”, cioè la branca della teologia che nel corso dei secoli si è occupata della comprensione di Gesù, in relazione alla sua identità e al suo ruolo nel piano divino.
E' poi opportuno rilevare che - ben diversamente da ciò che alcune “storiografie” religiose vorrebbero far credere - l’idea della “preesistenza dell’anima” era presente nella tradizione biblica, come possiamo constatare da un passaggio che si trova nel Libro della Sapienza, dove vengono poste in bocca a Salomone queste parole “Avevo avuto in sorte un'anima buona o, piuttosto, essendo buono, ero entrato in un corpo senza macchia” (Sap.8,19-20).
Questa idea, per fare un altro esempio, era ben presente anche nel pensiero di Filone, ebreo di Alessandria, una figura teologica di primo piano vissuto nella stessa epoca di Gesù... punto di riferimento dei successivi teologi cristiani della cosiddetta “scuola di Alessandria”, cioè della città più importante dell'impero dopo Roma, una specie di capitale culturale dell'epoca.
Infatti Filone scriveva tra l’altro: “alcune (anime), le più attratte dalla terra e dalla materia, scendono per rimanere incatenate in corpi mortali... altre invece risalgono (…) alcune ridiscendono un'altra volta per nostalgia delle abitudini connesse alla vita mortale e divenute loro congenite e familiari, altre invece, riconosciuta la grande vacuità della vita, chiamano il corpo una prigione e una tomba e, fuggendo da esso come da un carcere e da un sepolcro, si librano in alto verso l'etere con ali leggere e si intrattengono per l'eternità con le cose celesti” (Filone di Alessandria, De Somniis 1,138-139).

Ecco allora che... nonostante il tentativo di Schnackenburg di eslcuderla... l'idea di “preesistenza dell'anima” è in realtà implicita nell'interrogativo dei discepoli che cercano di spiegarsi la drammatica condizione sperimentata da quell'uomo sin dalla sua nascita.

Il fatto che, come stiamo per vedere, Gesù non smentisca questa loro idea, è... pertanto... assolutamente significativo, perché implicitamente conferma l'idea di preesistenza dell'anima la quale, a sua volta, è alla base della dottrina della reincarnazione.
E’ proprio questo che ammette infatti anche il sopracitato Don Cantoni, quando scrive che nell'episodio della guarigione del cieco nato in Gv 9,1-12 “Sembra attestata, in modo inequivocabile, una implicita credenza nella reincarnazione”.

Segue: Gv 9,3